ROMAGNA. NEL SEGNO DELLA TRADIZIONE / 12 / Cene, trebbi, botti e superstizioni di Capodanno. E la mattina dopo “Bon dè, bon ân e bona furtona par tott l’ân!”

Gli aspetti celebrativi tradizionali del Capodanno e della notte di San Silvestro, cioè quella tra 31 dicembre e 1° gennaio, si sono fortemente trasformati in un arco relativamente breve di tempo. Il modo con cui li viviamo noi oggi, almeno a livello popolare, parte dal Novecento a seguito di modelli di vita che nell’ultimo secolo (e ancor più dal secondo dopoguerra) si sono decisamente modificati. Oggi per molti è irrinunciabile, nell’ultima sera e notte dell’anno, partecipare a cenoni e feste sia a livello familiare o amicale, sia in locali o ritrovi pubblici. Nella stessa notte, in virtù della diffusione di usanze un tempo qui non presenti, si assiste al discutibile spettacolo di botti e petardi, che pure deriva da intenti originalmente apotropaici basati sul ricorso a rumore i strepiti che si riteneva potessero allontanare le entità e le influenze maligne in un delicato momento di passaggio. Il primo dell’anno, anche in conseguenza di queste nuove morfologie del festivo, è divenuto oggi più che altro un giorno di riposo e di blando svago, praticamente privo (se si esclude lo scambio di auguri e la reminiscenza di qualche tradizione di carattere alimentare) di significative permanenze folkloriche.

Cartoline

In passato e nel bagaglio tradizionale romagnolo, la sera dell’ultimo dell’anno non prevedeva molte usanze particolari, se si escludono alcune pratiche divinatorie: quello non era che un momento nell’arco delle celebrazioni solstiziali invernali e di passaggio dell’anno, che per dodici notti costituivano, in un denso insieme, un arco festivo dedicato a una multiforme ma allo stesso tempo coerente ed omogenea ritualità. Il ceppo continuava ad ardere nel camino, qualche decorazione simbolica ornava le case, costituita magari da qualche ramo di ginepro, pianta ritenuta difensiva e «cacciadiavoli», o di foglie e bacche di agrifoglio o di pungitopo. Di certo, in quella sera come nelle altre dei questo dōdekaēmeron, ci si dedicava a «trebbi» e, come già detto, a pratiche pronosticanti, spesso con l’osservare le faville suscitate agendo sul ceppo ardente, e in altri modi. Uno di questi fu raccontato nel dettaglio da Aldo Spallicci agli inizi del secolo scorso:

«Si è cercata una spiga di grano nel pagliaio e si è sgranata nel palmo della mano. Dodici chicchi per quanti mesi conta l’anno. Si spazza via la cenere [del focolare], si dispongono i dodici grani in fila entro un cerchio di bragia e si sta ad osservare. La prova è fatta per prevedere il prezzo del grano o la bontà dell’annata ventura. Se un chicco salta in avanti è buona sorte, se indietro è cattiva, se rimane immobile, o annerisce e fumando s’abbrucia, le cose andranno naturalmente senza danno ma anche senza vantaggio. Sommando si ottiene la media che dà l’esito complessivo della prova. A volte è sufficiente porre un solo grano di granturco sul focolare. Sventura se il chicco brucerà, gioia se invece fiorirà sbocciando la “colombina”» (A. Spallicci, Giuochi e presagi di Natale e Capodanno, «Il Plaustro», 1911, n. 6, p. 43).

Cartolina

Ma già all’alba del primo dell’anno, ecco la comunità animarsi con l’uso del «Buongiorno, buon anno!» (Bon dè, bon ân e bona furtona par tott l’ân!), la questua augurale che i bambini e i ragazzini maschi (coerentemente con gli usi di una società patriarcale: il discorso dovrebbe essere più articolato ed esplicativo, ma non è possibile farlo qui) mettevano in atto gridando la formula benaugurante alle case e alle famiglie, già sveglie e pronte a quella visita, gradita e anzi richiesta. Si dovevano accogliere i bambini, ricompensarli con un dono consistente in spiccioli (già accuratamente preparati) o in qualche dolce o cibo. Questi auguranti, che per ore si impegnavano in quello che era ritenuto un rito importante (oltre che, per loro, in qualche modo remunerativo nella debole economia popolare del passato), usavano il «potere della parola», in questo caso dell’augurio, ritenuto efficace e persino potente, perché le parole, soprattutto articolate in formula, per i popoli di tradizione orale non erano soltanto l’espressione di un pensiero, ma erano anche un evento, un modo di agire, un meccanismo magico.

Insieme a questo, va considerato che gli auguranti del primo dell’anno svolgevano una funzione non dissimile da quella dei piccoli che ad Halloween gridano il loro “Dolcetto o scherzetto?: rappresentavano cioè i vicari delle entità numinose e tutelanti, e per questo andavano ben accolti. Se nella sera della vigilia di Ognissanti il non accettarli espone al minacciato «scherzetto», anche nel Capodanno il questuante che non ricevesse un dono poteva aggiungere alla formula orale una sorta di minaccia malaugurante: Ch’u v’mura la sumara int e’ capân!, cioè: «Vi muoia l’asina nella capanna!» (intesa come ricovero-stalla dell’animale).

Così come la questua augurale doveva essere condotta solo da bambini e ragazzi maschi, anche gli auguri al novero familiare o amicale dovevano essere portati e fatti solo dai maschi: la donna non augurava, né visitava nel giorno di Capodanno le case altrui, anzi rimaneva possibilmente confinata nella propria abitazione, perché fare come primo incontro nel giorno di Capodanno quello con una donna era ritenuto segno negativo, specie se questa donna era anziana o sconosciuta. Ugualmente era letto come segno malaugurante l’incontro con un povero o un mendicante adulto. Era ritenuto invece buon auspicio incontrare un uomo anziano, simbolo di lunga vita.

Venendo alle tradizioni di carattere alimentare, nel giorno di Capodanno, ovviamente, il pranzo era ricco (anche se non come quello del Natale), in conformità con la morfologia del festivo. Un cibo tradizionale in Romagna, da assumere quasi ritualmente e possibilmente a digiuno, era l’uva bianca, appositamente conservata appesa alle travi in lunghi mazzi fino a diventare quasi passita. Ne andavano mangiati, a scopo propiziatorio, sette chicchi. L’uva racchiude in sé la forza generativa dei semi, simboli portanti nei culti agrari e manistici (strettamente collegati), e quella della polpa capace, nel processo di fermentazione, di cambiare essenza e di arricchirsi da sé trasformandosi in vino. Proprio per questo era usata come cibo rituale nel momento di passaggio dell’anno, per propiziarsi benessere economico e guadagno.

Cartolina

Nel giorno di Capodanno poi ci si dedicava, sempre a scopo propiziatorio e in base agli arcaici canoni della magia imitativa, a svolgere brevemente e simbolicamente un po’ di tutte le attività e i lavori che si voleva risultassero agevoli e proficui nell’anno che iniziava; De Nardis scriveva in proposito che il primo dell’anno «se ne fa di tutto un po’: e meglio ci si industria in allegria e abbondanza, che tali godremo poi nei giorni a venire, sapendo che quel che si fa il primo, si fa per l’anno intero» (L. De Nardis, L’anno nella tradizione popolare, «La Pie», 1946, n. 1, pp. 7-8: 7).

Cartoline

Una tradizione pressoché universale che si è largamente persa, in occasione del Capodanno e delle altri grandi feste, è quella dell’invio di cartoline augurali. Per illustrare questo numero della nostra Rubrica ne proponiamo alcune della prima metà del Novecento. Le ultime quattro sono dell’illustratore faentino Adolfo Busi.