ROMAGNA. NEL SEGNO DELLA TRADIZIONE / 24 / La “Madonna dei garzoni” e il mercato delle braccia del 25 marzo. Le “oche” credulone del 1° d’aprile

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La ricorrenza del 25 marzo, festa dell’Annunciazione per il calendario liturgico cristiano, in Romagna era indicata a livello popolare e rurale anche come la Madona di garzon, cioè «La Madonna dei garzoni». I garzoni erano coloro (spesso bambini o ragazzini) che, in cambio principalmente di vitto e alloggio (se c’era un compenso era assai modesto), venivano mandati a lavorare e a vivere presso famiglie contadine, ove svolgevano ogni tipo di incombenza, a partire dalle più umili. In questa data ci si ricordava di loro, figure che sovente apparivano marginali, in virtù del fatto che tradizionalmente, secondo costumi civili consolidati, era proprio il 25 marzo (cioè prima che iniziasse la stagione dei lavori agricoli più impegnativi) che scadevano o si rinnovavano i contratti annuali che li legavano alle famiglie presso cui prestavano il loro duro e poco remunerato servizio.

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Foto ISMEL – Istituto per la Memoria e la Cultura del Lavoro, dell’Impresa e dei Diritti Sociali

Questi giovanissimi lavoratori provenivano, è ovvio, soprattutto da umili e povere famiglie bracciantili, e/o dalle aree in cui una volta il tenore di vita familiare era generalmente molto basso, se non al di sotto delle possibilità di sussistenza: alcune di quelle montane e collinari, o quelle più infruttifere della bassa più bassa. Per questo, nonostante dovessero sottostare a carichi e ritmi e di lavoro che non prevedevano, in genere, giorni o momenti di pausa, accettavano – o dovevano accettare – un ruolo che consentiva loro perlomeno di avere assicurato il sostentamento.

I garzoni venivano ingaggiati anche mediante occasioni di fiera-mercato dedicate a tale manodopera, che si tenevano proprio il 25 marzo. Nella circostanza le piazze a ciò deputate si affollavano di persone rappresentanti la domanda e l’offerta: mezzadri, fittavoli, contadini, sensali e intermediari, e ovviamente la giovanissima manodopera che si offriva, accompagnata da un familiare che trattava le condizioni. Non mancavano anche aspiranti garzoni d’età adulta e persino in là con gli anni, persone che, rimaste senza lavoro o in condizioni di grave indigenza, si accordavano anche in cambio solo del vitto e di un alloggio assai umile (non era raro che il garzone, se le condizioni abitative non consentivano altro o se il «padrone» si mostrava poco generoso, dormisse sulla paglia del fienile o nella stalla insieme ai bovini). C’erano anche procacciatori che giravano per le contrade più povere a scegliere i giovani adatti, per poi proporli ai coloni nelle fiere. Succedeva anche che i garzoni provenissero dagli orfanotrofi che, pagando una piccola retta per il mantenimento, affidavano alle famiglie contadine i ragazzini (sia maschi sia femmine), e a volte, al compimento della maggiore età e cessata la retta, questi rimanevano nella famiglia che li aveva a lungo tenuti con sé.

Lavoro Minorile

In Romagna le fiere più note di tal genere (durante le quali erano allestite bancarelle e si affollavano le osterie) erano quelle che si svolgevano alla Colonnella di Rimini, a Savignano, a San Zaccaria di Ravenna, eccetera, e in qualcuna di queste località, a ricordo di quel «mercato di braccia» che oggi ci fa rabbrividire e commuovere, continua o è stata ripresa la «Festa della Madonna dei Garzoni». Accade ad esempio a Conselice, comune dell’area settentrionale del Ravennate, un tempo assai povera, insalubre e caratterizzata da bassure impaludate, dov’erano moltissimi i bambini e ragazzini che venivano mandati garzoni presso famiglie coloniche operanti in zone meno svantaggiate.

Scriveva nel 1886 Abdon Altobelli: «Se per tanti l’Annunciazione di Maria è una solennità lieta, per alcuni, i garzoni o servitori di campagna, è un giorno di dolore. In quella mattina essi debbono spesso cambiar di padrone – quando ne hanno uno nuovo, presso cui servire. Perché avviene qualche volta che alcuni escano dalla casa in cui hanno tanto sofferto e dove pur rimarrebbero tutta la vita, e, col loro fardelletto leggero sotto un braccio, tristemente s’avviino per una strada senza meta, trangosciati dal pensiero di non sapere dove riposare la notte, dove servire e mangiare il domani, posdomani, e quell’altro giorno, poi quegli altri ancora, tutti pieni d’una sconsolante visione di miseria e di stenti» (A. Altobelli, Marzo, in «L’Illustrazione Italiana», 1886, n. 10, 7 marzo, pp. 199-200: 200).

Il tono drammatico di tale descrizione, coerente con certo romanticismo sociale dell’epoca, sottolinea aspetti tristemente reali, ma fortunatamente non era scontato che fosse quello il destino dei garzoni; non di rado infatti questi lavoratori si integravano piuttosto bene nelle famiglie che li assumevano, presso cui potevano restare anche tempi lunghi, né mancavano casi in cui tra il garzone e qualche ragazza della famiglia colonica nascessero un rapporto e un sentimento che potevano condurre sino al matrimonio.

1° Aprile

Veniamo al 1º aprile. In alcune occasioni del festivo, o in date particolari del calendario popolare, era previsto che a certi animali venisse riservato il ruolo di capri espiatori da sacrificare per eliminare e purificare i mali e le colpe delle comunità, simbolicamente confinate, così, in soggetti che espiavano per il bene comune. Non mancavano tuttavia, insieme a vittime animali, anche bersagli umani da usare allo scopo attraverso comportamenti collettivi e codificati che andavano dallo scherzo ironico e bonario a forme più pesanti, motivate a volte dalla inadeguatezza, perlomeno presunta, del soggetto-vittima che, considerato un anello debole della struttura sociale, era ritenuto destinato a quel ruolo.

Luciano De Nardis, in un suo articolo del 1946, descriveva il «giro dei creduloni combinato in malizia e letizia il primo dì d’aprile: – e’ prem dè d’abril, tott agli öch al va in zir [il primo giorno d’aprile, tutte le oche vanno in giro]» L. De Nardis, L’anno nella tradizione popolare, «La Piê», 1946, pp. 53-54: 54).

1° Aprile

In quel giorno, insomma, i meno esperti e i più sprovveduti (ma chiunque poteva cascarci) venivano e vengono «mandati in giro» come oche a compiere missioni assurde, o si divulgano notizie fantasiose a danno dei più creduloni, fatti abboccare come pesci col credere a informazioni fasulle. Non è facile dire da dove nasca questa usanza (ci proveremo in una prossima puntata trattando di usanze simili relative al Calendimaggio), che è oggi chiamata del «pesce d’aprile» e che in Italia, secondo alcuni studiosi, potrebbe essere giunta ed essersi diffusa in tempi non molto lontani: diverse sono le ipotesi, nessuna delle quali del tutto convincente. Resta il fatto che, come avviene o avveniva anche in altre occasioni, si celebravano occasioni in cui un buon numero di «vittime» doveva, quasi ritualmente, cadere sotto la mannaia delle burle, delle prese in giro o di scherzi anche piuttosto pesanti, quasi in una manifestazione di forme spurie di charivari.

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