Cultura. A tu per tu con Eraldo Baldini su peste, epidemie, guerre e altre paure antiche e moderne

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Eraldo Baldini, 65 anni, nato a San Pancrazio di Russi, saggista e romanziere, creatore del genere Gotico Rurale che poi è anche una raccolta di suoi racconti, autore di tanti lavori di successo, vincitore di premi e riconoscimenti, con la sua ultima fatica – “Il fango, la fame, la peste” scritto a quattro mani con Aurora Bedeschi e pubblicato dalla Società Editrice Il Ponte Vecchio – è tornato al primo amore, ovvero agli studi storico-etnografici. 

Lo raggiungo a casa sua, a Ravenna, appena tornato da Russi dove ha dovuto sbrigare una serie di pratiche burocratiche legate alla vendita della casa di famiglia a San Pancrazio. La casa dove è nato e cresciuto, nella stessa via dove sono nato e cresciuto anch’io, pochi anni dopo di lui, a trecento metri di distanza in linea d’aria.

 

L’INTERVISTA

Eraldo, partiamo dalle radici. Che cosa rappresentano per te le radici e quanto sono state importanti nel tuo lavoro?

“Lo sono state, certo, non perché siano radici particolari, ma perché io sono rimasto legato alle mie radici anche per scelta. Non mi sono mai allontanato e anzi ho cercato nella terra dove affondano le mie radici quei temi che hanno nutrito le mie ricerche per la saggistica e la mia immaginazione per la narrazione. E anche per ragioni anagrafiche ho vissuto la mia infanzia e adolescenza in un mondo antico, ancora pienamente riconoscibile.”

Cioè?

“Il paese era piccolo e tutti si conoscevano. Di tutti conoscevi vita, morte e miracoli, perfino la genealogia, la cultura, la mentalità.”

C’era una cultura del luogo, quindi.

“Sì. Senza voler restringere il tutto a un solo paesino, c’era però una cultura contadina della pianura, diffusa, con le sue forme riconoscibili, i suoi valori, i riti. I paesini come San Pancrazio avevano le loro regole, che scandivano i tempi e i modi della vita.”

Regole e riti. Nel bene e nel male.

“Certo. C’era un grande spirito comunitario, ma per esempio mancava tutta la dimensione contemporanea della privacy”

E c’era un ferreo controllo sociale…

“Che non ti permetteva di sgarrare. C’era una fascia di comportamenti individuali codificata come normale e non potevi permetterti di andare sotto quel livello giudicato giusto ma nemmeno potevi permetterti di andare oltre, di trasgredire, di superare il limite superiore, se no eri strano e ti guardavano male.”

Poi c’era il solito matto del paese…

“Sì, quella era la classica eccezione accettata da tutti, che confermava la regola. E poi allora si cresceva in casa. In casa c’erano i nonni. E c’erano le storie, i saperi del passato, i modi di dire e di fare le cose. Insomma le regole da seguire, trasmesse dai vecchi ai giovani. E c’era il dialetto che presiedeva a tutto questo. Solo a metà degli anni ’60 si è cominciato a smettere di parlare dialetto in casa, per evitare che i bambini lo “prendessero su”. Prima no. Prima il dialetto era la lingua della casa. È la differenza fra la mia esperienza e quella di mio fratello: nove anni ci separano. Io sono cresciuto col dialetto, a lui i miei parlavano solo in italiano.”

Veniamo a questo tuo libro – Il fango, la fame, la peste – con il quale torni alle tue origini, agli studi di carattere storico ed etnografico.

“Sì, sono partito dallo studio del folclore, delle tradizioni, della lingua, delle superstizioni, l’universo popolare della mia infanzia in fin dei conti.”

Ricordo che tu avevi una passione per certi aspetti particolari di questo mondo, come la magia, il mistero, la paura, la stregoneria… erano parte integrante dell’immaginario popolare di cui parlavamo prima. Ricordo che leggevi Lovecraft e discettavi del Malleus Maleficarum…

“È il lato oscuro e magico che accompagnava quelle tradizioni e la cultura popolare. Tutto era funzionale a cercare di dare un volto e un nome ai pericoli e alle difficoltà della vita quotidiana. È il tentativo di affrontare e gestire in qualche maniera tutta una serie di fenomeni inquietanti, un modo per ritualizzare, esorcizzare e addomesticare questi fenomeni così potenti che sfuggivano alla comprensione e al controllo delle persone. Ho raccolto a lungo fonti, storie, cronache del passato…”

E poi con questi hai nutrito anche i tuoi romanzi.

“Inevitabilmente. Da quella mole di fonti e dati ho tratto ispirazione per tutto il mio lavoro, sia saggistico, sia narrativo.”

I pericoli, le paure, le difficoltà della vita quotidiana dei nostri avi. Dunque siamo al tuo ultimo lavoro. Parli, non a caso, di fango, di fame e di peste. Questi fenomeni e altri angustiavano i nostri antenati ogni giorno…

“Certo, i problemi delle stagioni e del tempo atmosferico, delle carestie, delle epidemie erano enormemente presenti nella vita delle persone dei secoli passati. Lo si evince in modo chiaro e preciso da tutti i racconti e dalle cronache.”

E la peste nera è stato l’incubo degli incubi.

“Già. Il mio libro arriva intorno al 1670 quando si registra nell’Italia settentrionale l’ultima epidemia di peste. La Romagna ne resta fuori, fortunatamente. Ma la peste fa il suo ingresso in Occidente agli albori del medioevo, subito dopo la fine dell’Impero Romano, tanto che viene definita la peste di Giustiniano. Naturalmente il secolo della grande peste e della peste nera è il 1300 ma la peste continua a colpire duro per tutto il Quattrocento e poi ancora dopo. Ricordiamo tutti quella di manzoniana memoria del 1630. Anche se poi nei secoli passati troviamo che si parla di peste per molte epidemie che probabilmente peste non erano. In certi casi si parla di peste quando si trattava probabilmente di virus Ebola, in base a certi sintomi.”

 

Danza macabra di epoca medioevale

 

In fondo, in tempi recenti non abbiamo parlato anche noi di peste parlando dell’Aids?

“Certo. Però tornando alla nostra storia. Certe volte era veramente peste, a volte era altro, a volte c’era un mix di epidemie. Probabilmente in termini assoluti, nel periodo da me studiato, fa più morti il tifo petecchiale perché c’è sempre, è endemico. E poi arrivano malattie sconosciute come la sifilide, alla fine del Quattrocento, portata dalle Americhe.”

E diffusa dalle truppe francesi di Carlo VIII che scende in Italia…

“Certo. Perché la spedizione del Re di Francia in Italia avviene proprio in quegli anni: l’esercito francese scorrazza in tutta Italia e porta ovunque la sifilide, che infatti verrà chiamata “il mal francese”.”

Se non che i francesi lo chiamavano “il mal spagnolo”…

“È una vecchia storia. La colpa è sempre dell’altro. Ma ci sono delle cronache dell’epoca in cui questa nuova malattia è descritta in maniera terrificante. Oggi si guarisce tranquillamente, ma allora si potere morire in fretta e fra dolori atroci. Girolamo Rossi racconta che i malati imploravano di essere uccisi piuttosto che di essere devastati dalla violenza della sifilide. Quanto alla peste, poi, allora aveva una diffusione incredibilmente veloce e devastante.”

Attraverso i ratti e le pulci…

“Questo lo si è sempre pensato. Ma in realtà fosse stato solo così le epidemie di peste sarebbero state a diffusione più lenta. Invece quando scoppiavano le crisi di peste era un incendio violento, veloce e devastante. Si parlava di propagazione dell’epidemia per 70 km al giorno ed era una strage. Oggi quindi si tende a pensare ci fossero anche forme di contagio interumano e non solo per trasmissione dagli animali agli uomini.”

Il sottotitolo del libro è “clima, carestie ed epidemie in Romagna nel Medioevo e in Età moderna”. Quindi il clima per te diventa un fattore centrale.

“Sì. Il clima è indissolubilmente legato per molti secoli a carestie ed epidemie e non c’è un discrimine chiaro fra una cosa e l’altra.”

Fra l’altro ci sono state anche oscillazioni climatiche importanti nel corso dei secoli e si parla addirittura di piccola glaciazione.

“Possiamo parlare di varie fasi climatiche. Dalla fine dell’Impero Romano fino all’ottavo secolo il clima è freddo. Poi per circa quattro secoli abbiamo quello che viene definito l’optimum climatico medievale, il clima è meno rigido, qui in Romagna ricompare l’ulivo e nel nord Europa addirittura si coltiva la vite. È un periodo in cui cresce l’economia, cresce la popolazione, rinascono le città. Poi torna un periodo più freddo e fra Duecento e Trecento arrivano le carestie e le epidemie, quindi irrompe la peste nera, c’è un’ecatombe, se vuoi una naturale soluzione malthusiana. Troppa pressione demografica per le risorse disponibili e la natura fa la sua selezione.”

Al resto pensa la peste nera…

“Che praticamente dimezza la popolazione europea e ci vorranno due secoli per tornare alla popolazione del Duecento. La vera e propria piccola glaciazione dura tre secoli da metà del Cinquecento a metà dell’Ottocento, con un secolo, il Seicento, che è un incubo. Un clima pesantissimo con nevicate a giugno sui raccolti e con raccolti che andavano perduti quasi un anno su due.”

Ma di quanto diminuì la temperatura?

“Si parla di un grado e mezzo. Sembra poco ma fece disastri questo calo. Pensa che solo negli ultimi dieci anni in Romagna la temperatura è cresciuta di due gradi.”

Scrivendo questo libro, cosa ti è venuto da pensare di ciò che sta accadendo nel mondo proprio dal punto di vista climatico?

“In realtà, proprio il Mediterraneo e l’Italia sono fra le aree più colpire dal cambiamento climatico e dal surriscaldamento del pianeta, insieme ai poli. Se pensiamo che anno scorso abbiamo registrato 50 gradi a Ferrara, siamo alla follia. Tutto questo inciderà prima o poi sulla disponibilità di acqua, sulle colture. Creerà movimenti di popolazione. Già li cominciamo a vedere. Se oggi dovessi avere paura di qualcosa, avrei paura proprio di tutto questo.”

Il tema della paura è molto interessante. E tu l’hai sempre maneggiata bene… la paura. Nei secoli passati uomini e donne convivevano ogni giorno con tante paure, la paura era elemento costitutivo della vita.

“Non so se fosse paura o piuttosto se si possa parlare più di consapevolezza della precarietà e caducità della vita, che ognuno portava con sé come elemento costitutivo fin dalla nascita.”

Quindi un senso innato del limite, del nostro posto nel mondo, esposti a mille pericoli, in cui la morte era a braccetto con la vita.

“Stiamo parlando di un mondo di carestie, di epidemie, di fame, di freddo, di malattie e in cui c’era la guerra come fattore endemico. Insomma, la morte era dietro l’angolo.”

Invece l’uomo moderno ha espunto la morte dal suo orizzonte.

“Questo è stato uno dei cambiamenti culturali più grandi.”

La morte è diventata un tabù.

“La nostra morte è diventata un tabù. Non quella degli altri. Sui media c’è un consumo massiccio di morte. Quella degli altri, rappresentata come spettacolo e come informazione. Mentre sulla nostra operiamo una rimozione totale.”

Mentre fino a qualche generazione fa la morte era parte della vita. Non era rimossa.

“Anzi era istituzionalizzata e ritualizzata. E poi la gente moriva in casa. Stretta nell’abbraccio parentale. Intorno al trapasso e al lutto c’era tutta una ritualità codificata che serviva anche da risposta psicologica e sociale. E i morti diventavano una sorta di numi tutelari domestici.”

Oggi invece la morte scompare, relegata alle stanze di ospedale.

“Sì, abbiamo il terrore della morte vicina. Abbiamo codificato la buona vita, ma senza la morte. Sono le società che stanno molto bene che hanno appunto il terrore della morte. Nel passato con la morte c’era una certa familiarità, se così si può dire. Se parliamo di Romagna, l’inchiesta agraria di Jacini a fine ‘800 stabilisce che all’epoca la vita media nelle campagne era di 35 anni. Stiamo parlando appena di 134 anni fa non di 1000 anni fa. La mortalità infantile era altissima. I rischi di morte erano enormi, forse quotidiani, ancora all’epoca.”

Com’era vissuto in questi anni di crisi e di epidemie, il tema della paura del diverso, dell’altro da me, o di chi viene da lontano. Oggi in periodo di crisi ci chiudiamo in noi stessi e incolpiamo di una serie di nefandezze gli stranieri. Che ci portano via questo o quello. Che portano malattie o criminalità. E allora?

“C’era la paura del diverso. Assolutamente. Durante le epidemie di peste si cercava l’untore.”

Chi erano, cioè chi veniva incolpato?

“Le streghe. Gli ebrei che vengono sempre accusati di essere untori della peste.”

D’altronde anche il “mal francese” dopo tutto è una malattia d’importazione, venuta dai forestieri…

“Certo. Qualcuno che porta calamità. Ma vedi, un primo fattore determinante nei secoli passati è quello religioso. La chiesa ti diceva che ogni cataclisma, ogni carestia, ogni epidemia, ogni terremoto significava che la comunità colpita aveva delle colpe, si era meritata il castigo divino, era stata punita giustamente. Quindi c’era un senso di colpa diffuso. E un malessere colletivo.”

Poi però bisogna purificarsi attraverso il processo di espiazione e la ricerca del capro espiatorio…

“Esatto. E infatti di fronte alle tragedie collettive la prima reazione era quella delle processioni, delle preghiere, delle auto flagellazioni, in un clima di colpevolizzazione e di esaltazione collettiva nella paura. Da qui nasceva il bisogno di trovare subito dopo la valvola di sfogo a tutta questa tensione: il capro espiatorio. I diversi, le streghe, gli ebrei erano perfetti come elementi borderline. C’è un caso singolare che ho trovato qui in Romagna e che descrivo nel mio libro.”

Dove si verifica?

“Nell’Imolese. Siamo nel 1630 nelle colline subito sopra Imola. Troviamo due piccole comunità che litigano per una vigna e che si accusano reciprocamente di portare la peste, di essere untori. Negli atti del processo che si celebra a Bologna vengono riferiti fatti incredibili: chi ha visto il diavolo vestito di rosso che si aggirava per la vigna, chi invece lo descrive tutto giallo.”

In fondo, con gli strumenti e gli occhi della modernità succede anche oggi. Agli stranieri – che so ai Rom piuttosto che ai clandestini – si attribuiscono tutti i più turpi delitti.

“Sì. Purtroppo succede anche questo. E poi c’è un’altra stranezza, nel Quattrocento per un certo periodo qui in Romagna abbiamo avuto invasioni di locuste come si trattasse delle piaghe d’Egitto. Cose terrificanti, le cronache parlano di insetti che oscuravano perfino il cielo. È stato per un breve periodo, poi non è più successo.”

Siamo alla fine della nostra storia. È vero che non vuoi più scrivere romanzi?

“Diciamo che ho meno voglia e meno motivazioni. Capisco sempre meno il mondo editoriale. Pensa che oggi in Italia si pubblicano in media 180 titoli al giorno, resta notizia e memoria di tre o quattro opere. La stragrande maggioranza delle opere pubblicate ha vita brevissima in libreria. Allora mi chiedo che senso ha tutto questo.”

Non escludi però di tornare alla narrativa?

“Ora mi sto concentrando di più sulla ricerca e sulla saggistica, perché mi diverto di più e perché so che mi rivolgo a un pubblico – per quanto piccolo – più attento e appassionato. Quindi mai dire mai, però le cose stanno così.”

 

Intervista raccolta da Pier Giorgio Carloni

 

 

Scena di pogrom contro gli ebrei a Francoforte nel 1614

 

LA SCHEDA DEL LIBRO

Eraldo Baldini – Aurora Bedeschi

IL FANGO, LA FAME, LA PESTE. Clima, carestie ed epidemie in Romagna nel Medioevo e in Età moderna

Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena 2018, pp. 306

Dedicare una ricerca e un libro a clima, carestie ed epidemie relativamente a un territorio e alla sua popolazione su un lungo periodo significa delineare il complesso rapporto di quella popolazione con l’ambiente, con le sue risorse e con le sue espressioni più problematiche o catastrofiche. Significa occuparsi della storia della vita quotidiana come di quella degli eventi eccezionali ma non per questo unici o rari. Individuare, ove possibile, i meccanismi delle ciclicità, dei mutamenti e delle loro fasi.

Significa ipotizzare e tratteggiare una relazione. E che fra clima, disponibilità alimentari e malattie una relazione ci sia è indubbio, anche se è impresa ardua stabilirne, in generale o epoca per epoca, le modalità, le caratteristiche, il peso, mentre più agevole è ricostruire la storia degli eventi. Agevole da un punto di vista teorico e concettuale, ma sul piano concreto tale ricostruzione implica, ovviamente, il ricorso a una enorme mole di fonti e di studi che riguardano i dati storici, testimoniali, archivistici, demografici, archeologici, ambientali, epidemiologici, ecc.

E, fra quelle fonti, una rilevanza particolare devono averla le vare cronache locali di ogni epoca, preziose quanto a volte incerte, non di rado improntate all’iperbole e quindi non sempre affidabili, ma non per questo meno importanti. Perché è interessante delineare non solo la storia di clima, carestie ed epidemie, ma anche la storia della loro «narrazione», cioè del loro impatto emotivo, del modo in cui venne vissuta e in cui ne fu tramandata la memoria. In tanta storiografia del passato l’importanza e il peso del clima sulle vicende umane è stato spesso sottovalutato.

Ma il clima, lungi dal costituire una specie di semplice scenario in cui le vicende umane si svolgono, è stato sovente attore e arbitro di quelle vicende, e ciò è vero sia per singoli eventi, sia per le linee di tendenza nei lunghi periodi. L’importanza e la forza assunta da certi popoli, la loro possibilità di espansione, gli incrementi o decrementi demografici, le migrazioni, le invasioni, i periodi di sviluppo e le crisi, le condizioni di vita: tutto è in qualche modo influenzato dal clima, dalla sua stabilità, dai suoi capricci e dai suoi lenti o veloci cambiamenti. A maggior ragione ne saranno fortemente condizionati l’ambiente, l’attività umana, l’agricoltura, quindi la stessa disponibilità alimentare e la sua qualità e quantità, fino alla evenienza della carestia.

Che, sia chiaro, ha quasi sempre cause molteplici (gli assetti e le contingenze economiche, il mercato, il regime dei prezzi, i rapporti di produzione, i sistemi politici, gli eventi bellici, le oscillazioni demografiche, ecc.), ma difficilmente manca il ruolo degli accadimenti meteo-climatici. L’insufficienza o la perdita dei raccolti dovuta alle troppe piogge o alla siccità, al gelo o all’inondazione ha rappresentato, in società largamente «agrarie», un aspetto determinante e dirompente per intere comunità. E le popolazioni stremate dalle crisi alimentari, dalla carestia o dalla cronica denutrizione, da un basso livello economico e di vita che implicava precarie condizioni abitative ed igieniche avevano anche, normalmente, una bassa qualità della salute, risultando più esposte al rischio di malattie e di epidemie, e meno forti e reattive nel combatterle.

Le condizioni economiche e i bisogni alimentari fungevano poi da volano delle malattie e delle epidemie anche in altri modi. Ad esempio, in epoche in cui gli «ammassi» annonari, la presenza degli enti caritatevoli e assistenziali, la possibilità stessa di perorare o elemosinare erano tutti concentrati nei centri urbani, masse di contadini affamati, di diseredati, di mendicanti confluivano continuamente nelle città stesse, e proprio questa mobilità poteva diffondere o favorire i contagi. Nel libro dunque si disegna e si ripercorre, relativamente alla terra e alla gente di Romagna, la storia di quasi milleduecento anni di vicende del clima, dell’alimentazione, della situazione sanitaria e delle epidemie, dalla caduta dell’Impero Romano fino alla seconda metà del Seicento.

Si parte dalla prima grande crisi alimentare di questo lungo arco di tempo, in occasione della guerra tra Goti e Bizantini del VI secolo, quando nel Riminese vennero testimoniati addirittura casi di cannibalismo, e dalla terribile «peste di Giustiniano» negli anni immediatamente successivi, passando attraverso la più tranquilla fase dell’«optimum climatico medievale» che perdurò fin quasi alla fine del XII secolo, per giungere alla «peste nera» del 1348, alle ricorrenti crisi ed epidemie del Quattrocento, all’insorgere della cosiddetta «Piccola età glaciale» che infierì perlomeno dalla metà del Cinquecento in poi per circa tre secoli; ci si sofferma sulla peste di manzoniana memoria del 1630, sulle varie epidemie di tifo petecchiale e di vaiolo, sull’arrivo dal Nuovo Mondo, alla fine del Quattrocento, del «mal francese», la sifilide, per giungere alle epidemie e carestie che tormentarono la Romagna nel Seicento, quando nell’Italia settentrionale ci fu, come dicevamo. l’ultima epidemia di peste.

Un percorso drammatico e suggestivo, puntiglioso e documentatissimo, reso possibile da una ricerca capillare che Eraldo Baldini e Aurora Bedeschi hanno compiuto nell’arco di anni di paziente lavoro, regalandoci un affresco complesso, vivido, preciso e interessantissimo, come mai prima era stato fatto per la Romagna. Un affresco che, lungi dall’essere solo «storico», richiama al presente e ad alcune sue importanti problematiche quali i cambiamenti climatici, le discussioni sui vaccini e l’attenzione ai temi dell’alimentazione.

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